Immaginatevi ancora porte che sbattono, che scricchiolano per aprirsi e chiudersi. C’è chi vorrebbe stendere una colata di cemento sul passato, non aprire mai porte di una casa che è anche la sua casa, ma che per un motivo o un altro lo spaventano, quelle porte. Ma è nel destino delle porte, quello di riaprirsi, prima o poi. Scrive Aldo Cherini nel suo La peste a Capodistria e il Santuario di Semedella, che trovate anche in rete:
“La terribile peste del Seicento aveva colpito impietosa anche l’Istria, e Capodistria non era stata esente dal morbo. Il primo morto a Capodistria viene da taluni indicato sotto la data dell’11 settembre 1630”. Ne seguirono tanti altri, di morti, in quella conta macabra che ci regala la storia: 1990 su 2300 persone colpite dal morbo, su una popolazione di 4200 anime, cioè il 49% circa della popolazione complessiva. Tanti, troppi per spazzarli sotto lo zerbino del dimenticatoio. Fu per questo che nell’ Ottocento le autorità cittadine ci costruirono una piccola chiesetta a ridosso del luogo dove vennero sepolte tutte quelle vittime, ai piedi della collina di Semedella, un po’ più sotto dove c’è ancora la vecchia casa che fu dei Gambini. Dopo la seconda guerra, il cimitero venne coperto da una colata di cemento per l’ autorimessa degli autobus, poi per i camion, e la chiesetta venne inglobata fra le case popolari del nascente socialismo, prima, e dell’ imperante capitalismo, poi, che hanno una cosa in comune: la necessita' di sfruttare lo spazio. Ma socialismo o capitalismo, sempre cemento è. C’è chi oggi vorrebbe, in piena epidemia di coronavirus, gettarci altre colate di cemento, su quel cimitero dimenticato, per innalzare altri palazzoni. Idea, questa, che ha fatto insorgere i cittadini di Semedella,che hanno impugnato una petizione contro l’ ampliamento di quello che con gli anni è ormai diventato un rione dormitorio con pochi servizi, senza sbocchi e che avrebbe bisogno non di nuovi blocchi di cemento, casamenti, grattaceli, ma spazi aperti, un parco con negozi e ristorazione.
Una bella pagina del cambiamento che subì Capodistria nel ventesimo secolo, ce l’ha regalata P. A. Quarantotti Gambini ( scrittore capodistriano) nel suo Le redini bianche. Cito le parole di un personaggio del libro, un nazionalista sloveno, che l’ autore incontra sul molo di Capodistria nel 1960, anno in cui lo scrittore visitò per l’ ultima volta la sua città : “Presto Semedela e Capodistria, che deso se ciama Koper, no più Capodistria ma Koper, sarà na roba sola…na roba sola, na grande zita’: zento mila anime! Porto de Slovenia.”
Non so se abbiamo raggiunto le cento mila anime, non credo, forse solo contando anche i morti. Ecco, immaginatevi lo scricchiolio delle porte, che si aprono, che si chiudono.