Foto: Reuters
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Nessun verdetto definitivo, molte domande, ma anche molti dubbi: si potrebbe riassumere così l’atteggiamento in Europa sulle strutture per i migranti realizzate dall’Italia in Albania, in parte ancora in costruzione, ma che sono diventate operative nei giorni scorsi con l’arrivo dei primi sedici migranti, trasportati a caro prezzo da una nave militare.
In occasione del vertice europeo, la premier italiana Giorgia Meloni ha ottenuto un piccolo successo politico riunendo attorno a un tavolo con la presidente della Commissione, Ursula Von del Leyen, e l’appoggio di Danimarca e Olanda, dieci paesi (oltre all’Italia, Olanda e Danimarca, Grecia, Cipro, Austria, Malta, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria) che avevano firmato una lettera chiedendo alla Commissione di stringere partenariati più forti con i Paesi lungo le rotte migratorie e di rafforzare le politiche di rimpatrio. L’iniziativa puntava a trovare un appoggio all’accordo con l’Albania, ma non mancano i dubbi, su tutti quelli di Belgio e Francia, e nessuno per ora, in attesa di vedere i risultati, ha appoggiato esplicitamente l’idea, anche alla luce dei costi. In ogni caso i leader europei hanno chiesto alla Commissione di presentare "una nuova proposta legislativa con urgenza" sui rimpatri, senza prendere alti impegni.

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In Italia, intanto, il tema è a dir poco discusso, sia per la questione dei costi, sia per gli aspetti giuridici: nell’Hub dovrebbero finire solo uomini, maggiorenni, non vulnerabili, e appartenenti a uno dei 22 paesi ritenuti “sicuri” dall’Italia (come Tunisia, Egitto o Bangladesh); va in Albania anche chi non ha i documenti (spesso sottratti nei centri di detenzione in Libia), ma al momento non è chiaro chi debba decidere chi va o meno in Albania, e la selezione viene fatta a bordo delle navi, senza nemmeno far sbarcare i migranti.

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Proprio fra i primi 16 migranti giunti in Albania, quattro sono stati immediatamente rimandati in Italia, due perché minorenni e due perché vulnerabili, e oggi il tribunale di Roma esaminerà le richieste di convalida dei trattenimenti, ed è probabile che non saranno convalidati, visto che perfino la lista dei paesi considerati sicuri è stata messa in dubbio dalle istituzioni europee.
Infuria anche la polemica sui costi dell’operazione, che si calcola costerà oltre mezzo miliardo di euro in cinque anni, cifra necessaria far funzionare le strutture di Shengjin e Gjader, nel nord dell’Albania, costate già quasi 25 milioni, e che a regime dovrebbero ospitare circa 1.200 persone
Nel 2022, per gestire poco meno di 600 posti nei centri di permanenza per i rimpatri in Italia, erano stati spesi circa 55 milioni di euro, con un costo medio di 250 euro a persona al giorno, ma nei centri in Albania ogni migrante ospitato costerà addirittura 500 euro al giorno, il doppio rispetto ai Cpr, e oltre 14 volte in più rispetto alle altre strutture di accoglienza. Per ognuna delle 16 persone portate in Albania nei giorni scorsi, Roma avrebbe poi speso una media di 18 mila euro, se si calcola il costo della nave militare utilizzata.

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A fronte di queste cifre, non c’è poi alcuna certezza o previsione sulla reale efficacia del sistema sulla lotta all’immigrazione clandestina, visto che il trasferimento in Albania non facilita affatto i rimpatri e che, in caso di rilascio per scadenza dei termini, molto probabile, Roma dovrebbe accollarsi anche il costo dei trasferimenti in Italia, e della successiva accoglienza,
Rimangono poi tutti i dubbi dal punto di vista giuridico e anche umanitario sottolineati dall’opposizione: il centro sinistra, che con alcuni deputati ha anche fatto visita ai primi migranti portati in Albania, ha parlato di strutture che assomigliano più a carceri di massima sicurezza che a centri per migranti, ed espresso dubbi sulla legalità delle procedure. Anche in Albania, davanti al porto di Shengjin, attivisti albanesi protestano contro l’accordo, parlando di violazione dei diritti umani.

Alessandro Martegani