"Cose simili a quelle che noi, a Dachau, credevamo non avrebbero potuto più ripetersi, si ripetono ancora. L'orrido è insito nell'uomo e non soltanto in una società che sarebbe aberrante; ed ho sentito il dovere di dirlo".
Così il maestro Zoran Mušič - nato nel 1909 in una Gorizia ancora asburgica e morto a Venezia nel 2005 - raccontava a proposito del grande ciclo "Non siamo gli ultimi", atroce testimonianza, che risale agli anni Settanta, dell'esperienza vissuta nel lager. Con le parole "Noi siamo gli ultimi", i prigionieri di Dachau - Mušič, accusato di attività sovversive, vi fu rinchiuso dalla fine del 1944 - avevano espresso la speranza che mai più vi sarebbe stato un inferno come quello, mai più una simile barbarie.
Al pittore isontino, le cui opere sono esposte nei più importanti musei del mondo, è dedicato lo spettacolo "Il silenzio dei campi in fiore", ultimo appuntamento della rassegna "Tasselli di memoria", con la quale il Teatro Miela di Trieste di unisce ad altre iniziative per ricordare le vittime della Shoah. Una drammaturgia del compianto scrittore e regista triestino Marko Sosič nata inizialmente per gli incontri "Storie nell'Arte" del Museo Revoltella e ora riproposta in una nuova versione propriamente teatrale con la regia di Massimo Navone e l'interpretazione dell'attore Marco Puntin. Un monologo che è un piccolo viaggio nella vita e nell'arte di Mušič, che non ha mai dimenticato i morti di Dachau. "Dopo le visioni di cadaveri, spogli di tutto il superfluo, privi di maschera, delle distinzioni di cui si coprono gli uomini e la società - disse una volta - credo di aver capito la terribile e tragica verità che mi è stato dato toccare".
Proprio questo sapere da allora in poi Zoran Mušič non potrà fare a meno di applicarlo ai suoi celebri paesaggi, ai ritratti, ponendo sempre al centro la ricerca dell'essenziale, oltre a ciò che vedono gli occhi. E il "nodo" umano, l'esperienza esistenziale, perché nessuno come lui capiva quanto è fragile l'umanità.