Insultare o parlar male del proprio capo in una chat privata con un collega non ha alcun rilevo disciplinare e non è un comportamento sanzionabile dal datore di lavoro.
È quanto emerge da una sentenza della Corte di Cassazione alla quale si era rivolto un ex dipendente di una società di sorveglianza, rimosso dal posto di lavoro per alcune inadempienze, fra queste anche aver parlato male del proprio capo con una collega su WhatsApp.
La conversazione era stata trovata ancora in memoria nel pc dell’ufficio ed era stata una delle motivazioni che avevano spinto l’azienda ad allontanare il dipendente che si era visto prima annullare il licenziamento in primo grado a Udine, poi riconoscere solo un’indennità nel ricorso presentato alla Corte d’Appello ai Trieste, proponendo quindi un ricorso alla Corte di Cassazione, che ha annullato tutto rinviando il caso nuovamente in Appello per un nuovo giudizio.
Gli insulti su WhatsApp erano solo una delle cause del licenziamento: l’azienda accusava il dipendente di non aver denunciato un collega per lesioni e di non aver trasmesso dei dati alla polizia come previsto dalla norme, ma l’aspetto che è destinato ad esser ricordato è quello relativo agli insulti sulla chat privata.
La sezione lavoro della Cassazione ha infatti sottolineato come parlare male, "anche con giudizi pesanti e lesivi, del presidente e degli amministratori delegati della società per cui si lavora non è una condotta in sé idonea a violare i doveri di correttezza e buona fede”, anche perché era stato escluso “che tali dichiarazioni fossero anche solo ipoteticamente finalizzate ad una ulteriore diffusione”.
A dire la verità gli insulti al datore di lavoro via WhatsApp erano stati considerati "privi di rilievo disciplinare", già in primo grado, ma la posizione è stata ribadita anche dalla Cassazione: "Tali dichiarazioni – dicono i giudici - dovevano essere valutate specificamente nel contesto in cui erano state pronunciate, vale a dire in una conversazione extralavorativa e del tutto privata senza alcun contatto diretto con altri colleghi di lavoro”.
In una conversazione privata quindi i giudizi espressi sul proprio capo, anche se discutibili, non violano i doveri di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto di lavoro.
Alessandro Martegani