È scesa dall’aereo sorridente, accompagnata dagli uomini delle forze dell’ordine e ha abbracciato la famiglia che non vedeva da un anno e mezzo. Silvia Romano, la giovane rapita nel novembre del 2018 da una banda di criminali in Kenya e poi venduta a un gruppo di miliziani di Al-Shabaab, la più potente divisione di Al Qaeda, è tornata.
Avvolta in un velo verde, si sarebbe convertita all’islam nel corso della prigionia, è stata accolta dal premier Giuseppe Conte e dal ministro degli esteri Luigi di Maio.
La giovane è stata subito interrogata dagli inquirenti che indagano sul suo caso, un rapimento per certi versi anomalo come ci conferma anche Angelo Ferrari, giornalista dell’Agi che ha seguito costantemente il caso e ha scritto un libro sulla vicenda.
“È stato fin dall'inizio un rapimento un po' anomalo – racconta -: Silvia Romano è stata rapita nel novembre del 2018 da una banda di criminali comuni a scopo di estorsione, e questo non era mai accaduto in Kenya. Dopo si è capito che c’era stato il passaggio di mano ai terroristi Al Shabaab. Gli investigatori indagheranno e vedranno cosa è successo, ma si pensa che il rapimento sia stato fatto su commissione dei terroristi. C’è poi il fatto che le notizie non filtravano, si sapeva poco o nulla. Ci sono stati due o tre momenti chiave in questo anno e mezzo che hanno fatto sperare, si capiva che si stava lavorando, ma nulla di più”.
A tuo modo di vedere la particolarità del caso ha richiesto un diverso approccio da parte dei servizi che cercavano di giungere alla liberazione?
“Credo di sì: nel luogo in cui si trovava, la Somalia, l'approccio doveva essere concertato con le autorità somale, ma quello che è stato determinante in questa vicenda, per quello che si può capire ad oggi, è stato il lavoro dell'intelligence della Turchia. La Turchia, appare strano parlando di Somalia, è molto presente in quell'area, e quindi probabilmente il contributo turco è stato determinante, dopo che, secondo quanto trapelato dagli inquirenti, si è avuta la prova che Silvia era in vita, intorno alla metà di gennaio di quest'anno. Da lì sono partite le trattative: è stato un passaggio determinante, perché fino a quella data si sapeva solamente che Silvia era viva e che si trovava in Somalia, e l'unica prova in vita reale che ha avevano inquirenti risaliva al Natale del 2018, proprio quando furono arrestati tre degli otto membri della banda che l’aveva rapita”.
La tua relazione alla notizia della liberazione, dopo aver seguito il suo caso per un anno e mezzo qual è stata?
“La prima reazione è stata di gioia, di contentezza: è come se l'angoscia di 18 mesi fosse terminata di colpo, scomparsa, sparita. Capisco che dire questo non è giornalisticamente molto corretto, tuttavia, quando si vive una vicenda per così tanto tempo, a lungo, cercando di capirla, di scandagliarla, ti appassioni, la partecipi, non puoi essere distaccato. Questo è il primo aspetto che mi ha colpito di me stesso”.
Nelle prime ore dal rientro in Italia quello che ha fatto più discutere è stata la conversione di Silvia Romano all'Islam. C'è già chi parla di una sorta di sindrome di Stoccolma, forse però questo fatto si può leggere anche in altro modo: Silvia potrebbe essere quasi un'ambasciatrice fra due mondi…
“Non lo so se può essere un'ambasciatrice da due mondi, bisogna prima di tutto capire come è avvenuta questa conversione. Secondo quello che dicono gli inquirenti si sarebbe convertita senza costrizioni, probabilmente per una sindrome di Stoccolma. Sicuramente è stata sottoposta a una pressione notevole: non dimentichiamoci che la Somalia è uno stato musulmano e che i membri di Al Shabaab sono islamisti radicali e quindi giocoforza la pressione che ha subito potrebbe averla indotta a questa conversione. Si vedrà, bisognerà capire cosa succederà a lei in futuro, come metabolizzerà questa esperienza nei prossimi giorni, nelle prossime settimane e forse anche mesi, perché credo, nonostante lei dica che sta bene e che è in forze, che l'impatto psicologico sia stato notevole”.
Alessandro Martegani