Ilaria Rocchi e Ezio Giuricin Foto: Radio Capodistria
Ilaria Rocchi e Ezio Giuricin Foto: Radio Capodistria

Momento particolare per la Comunità Nazionale Italiana, che non può rimanere indifferente di fronte alla crisi all’Università Popolare di Trieste. Un buco, si dice di 750 mila euro. Se ne saprà di più quando verrà approvato il bilancio dell’ente morale. Rimane da vedere se prenderà corpo l’ipotesi di commissariamento o se si riuscirà a far fronte alla crisi in qualche altra maniera. Incerte le sorti del direttore generale, Fabrizio Somma; mentre presto potrebbe uscire di scena anche la presidente Cristina Benussi, che ha rimesso il suo mandato nelle mani del presidente della regione, Massimiliano Fedriga, prima di presentare le sue dimissioni al consiglio di amministrazione.

La bufera che ha investito l’ente, però, rischia di abbattersi anche sulla minoranza. Sarà necessario cambiare qualcosa? Ripensare a come vengono impiegati i finanziamenti che arrivano dall’Italia. Lo abbiamo chiesto ad Ilaria Rocchi, caporedattrice di Panorama e al giornalista di TV Capodistria, Ezio Giuricin. Proprio Giuricin è stato uno dei padri fondatori di Unione Italiana. Siamo arrivati dove si voleva arrivare?

: Certamente no, anche perché le ambizioni erano tante, erano alte ed erano grandi. Lungo il percorso abbiamo perso tantissimi di questi valori e di questi ideali. Naturalmente è inevitabile scontrarsi con la crudezza della realtà, con le cose di ogni giorno e con le contingenze storiche. Ora dopo oltre venticinque anni dalla fondazione della nuova Unione sarebbe sicuramente opportuno fare un po’ il punto e vedere dove siamo arrivati, capire quello che manca, nel nostro sistema minoranza, per individuare nuove strategie, nuove soluzioni per un futuro che non si presenta certamente facile.

Negli anni Ottanta c’era un ampio dibattito su cosa dovessero essere le Comunità degli Italiani, oggi è cambiato qualcosa o l’impianto è sempre lo stesso?

Ilaria Rocchi: In buona parte quell’impianto non è mai stato sostanzialmente modificato. I circoli all’epoca avevano una funzione ben precisa: erano i luoghi in cui i connazionali erano liberi di poter esprimere la loro appartenenza, la propria identità e soprattutto potevano trovare persone con cui condividevano lingua, cultura ed anche modo di pensare. Lì si sentivano tranquilli e liberi, erano delle piccole oasi. Va detto che il sistema è cambiato, c’è stata la democratizzazione, oggi ciascuno può manifestare apertamente la propria appartenenza e far valere determinati diritti. Le Comunità sono rimaste dei luoghi dove poter svolgere attività nel tempo libero, dove si possono, più che altro, coltivare degli hobby. A Fiume c’è stato un tentativo, fatto diversi anni fa da Valerio Zappia, che voleva distinguere le due componenti affidando quella artistico culturale alla Società “La Fratellanza”, mentre la Comunità degli italiani avrebbe dovuto avere un ruolo più politico e quindi promuovere diritti, aprire temi anche scottanti e forse occuparsi di economia. Purtroppo, quel disegno, probabilmente, non compreso da molti non è stato mai realizzato. Devo dire che non ci siamo adeguati ai tempi.

Eppure, all’interno delle Comunità, ancor oggi, c’è ancora chi ha nostalgia delle gite e delle borse libro. È giunta l’ora di dire che quella stagione è definitivamente tramontata?

Ezio Giuricin: Certamente è così. Bisogna avvertire il vento dei tempi nuovi. Va rilevato, comunque, che il tentativo di dare un rilievo sociopolitico più ampio ai nostri sodalizi era stato già affrontato tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta da Antonio Borme, con la trasformazione dei Circoli italiani di cultura in Comunità degli italiani. Con la riforma democratica, dell’inizio degli anni Novanta, abbiamo voluto dare ulteriore spazio alle Comunità degli italiani come insieme delle attività organizzate. dall’etnia su un determinato territorio, innanzitutto di carattere politico, sociale ed economico. Non soltanto, quindi di carattere artistico - culturale. Ovviamente per strada abbiamo perso valori e pezzi. Non siamo riusciti a raggiungere tutti gli obbiettivi e oggi in molte delle comunità degli italiani ci sono ancora queste vecchie abitudini che andrebbero completamente superate. Siamo comunque a metà del guado. Abbiamo alle spalle l’eredità di un profondo rinnovamento, quello dei primi anni Novanta, così come abbiamo alle spalle quella di Settant’anni di regime totalitario e non democratico, che ha lasciato delle profonde lacerazioni e ferite sulla nostra collettività nazionale: prima fra tutte la mancanza di una classe politica ed intellettuale in grado di guidare questa minoranza.

La comunità oggi ha tanti alleati, almeno a parole, sul territorio eppure se non arrivassero i finanziamenti dall’Italia molte Comunità degli italiani non avrebbero i soldi per pagare le bollette. Va rivisto qualcosa anche nel rapporto con le amministrazioni locali?

Ezio Giuricin: Certamente questo è uno dei più profondi e gravi problemi che abbiamo. Purtroppo, per tutta una serie di circostanze ci siamo appiattiti sugli aiuti dall’Italia, che negli ultimi decenni hanno egemonizzato tutta l’attività funzionale dei nostri sodalizi, del nostro tessuto comunitario, sino ad arrivare in alcuni casi il 90% dei finanzianti pubblici delle nostre strutture comunitarie. Questo è un segno di grande debolezza. Abbiamo abituato Slovenia e Croazia e soprattutto le amministrazioni locali a delegare alla nazione madre il sostentamento delle nostre attività, in un contesto dove non siamo riusciti a sviluppare una adeguata dimensione economica in grado di autofinanziare la nostra esistenza. Questo ha portato quasi a un rapporto di colonizzazione delle nostre strutture, per cui la dipendenza dai finanziamenti pubblici ha reso la nostra comunità estremamente debole e soprattutto estremamente ricattabile.

In sintesi, non basta avere un posto da vicesindaco o quello nel partito che gestisce la regione, ma bisogna ripensare i rapporti a livello locale.

Ilaria Rocchi: È un discorso che non riguarda solo le Comunità degli italiani, ma anche le scuole e se vogliamo anche l’Edit. È difficile capire come reimpostare tutto quanto. Io noto soprattutto una mancanza di visioni, di progetti sociopolitici. Noto una dipendenza, non solo dai fondi italiani, ma anche dagli umori delle forze politiche a livello locale o regionale. In questo senso anche i nostri consiglieri e vicesindaci hanno le mani legate. C’è una sorta di autocensura, si sentono le mani legate quando devono andare a toccare determinati equilibri. A Fiume, ma la stessa cosa potrebbe riguardare l’Istria, abbiamo da tempo un consigliere comunale, ma non ho visto che si sia fatto portatore di grandi progetti a favore della minoranza italiana.

La Crisi dell’Upt ci servirà al nostro interno per ripensare agli interventi che vengono fatti a favore della Comunità nazionale o cercheremo di insistere che tutto deve rimanere così come è?

Ilaria Rocchi: Credo, ma forse sbaglio, che cercheremo di difendere il nostro impianto. Interventi che hanno dato dei risultati e che cercheremo di difendere come il prodotto della nostra volontà e della nostra identità. Purtroppo, temo, che dovremo fare una riflessione, perché se l’Upt sarà commissariata e se verrà riveduta, andrà anche riveduto il piano di collaborazione permanente e questo viene detto a chiare lettere.

Ezio Giuricin: L’esperienza un po’ pessimistica mi dice che rimarremo arroccati, ma la speranza è che questa crisi istituzionale finanziaria dell’Upt porti la nostra minoranza ad accettare la sfida di un grande cambiamento soprattutto nei rapporti con la Nazione Madre.

Un punto questo su cui Giuricin è stato sempre molto critico

Ezio Giuricin: Nei i pochi mesi che son stato membro della prima Giunta esecutiva ero sempre stato contrario a questo tipo di modalità nell’erogazione dei finanziamenti. Mancava un ampio progetto, non c’era una contrattazione precisa che rispettasse la piena soggettività della nostra minoranza. Allora avevano chiesto con forza la proposta di approvazione, da parte del parlamento italiano, di una legge di interesse permanente per la salvaguardia della nostra identità e per la salvaguardia delle nostre istituzioni in Slovenia e Croazia. Una proposta questa che è straordinariamente attuale anche oggi e che continuiamo a sostenere con vigore. Spero continui a farlo anche l’Unione Italiana.

Il ruolo di tramite dell’Università popolare di Trieste è assolutamente insostenibile. Il piano di collaborazione permanete di fatto non esiste più. La crisi dell’Upt non è solo il frutto di lacune burocratiche, di malagestione o questioni che riguardano l’assetto amministrativo del rapporto di collaborazione con la Nazione Madre, ma è anche in parte di un disegno per la nostra ghettizzazione.

Voluto da chi?

Ezio Giuricin: Un po’ da tutti. Dai poteri forti, da molte forze politiche in Italia e nei nostri stati domiciliari. Basta guardare alla situazione nelle nostre istituzioni, al nostro ruolo sociopolitico. Sostanzialmente è quello di una entità ghettizzata, che non deve debordare, non deve uscire dai limiti che gli sono stati imposti. Non dobbiamo disturbare. Mi pare di capire, che siamo di fronte ad una strategia, di talune forze politiche, in Italia, a Trieste nel Friuli- Venezia Giulia volta a eliminare l’unitarietà e la soggettività dell’Unione italiana, la massima associazione rappresentativa della nostra minoranza. Il bando del Friuli - Venezia Giulia per i mezzi per le nostre istituzioni e per le nostre Comunità ne è un esempio evidente. Non ci dobbiamo prestare a questo gioco e dire decisamente no!

Il bando è un po’ un invito a guardare agli interessi particolari più che a quelli generali.

Ilaria Rocchi: Noi abbiamo creato un sistema mastodontico e ne stiamo pagando le conseguenze. Le Comunità hanno moltiplicato le loro attività, i fondi sono diventati sempre più esigui e a livello locale percepiscono poco o nulla. Cercano, così, di ottenere quanti più mezzi per poter mandare avanti la baracca. Al primo attivo consultivo delle Comunità degli italiani quando è stato fatto notare che l’adesione al bando del FVG di singole comunità aveva creato tanti scompensi, in un certo senso, delegittimato il ruolo dell’Unione Italiana alcuni presidenti hanno dichiarato che avrebbero, comunque, aderito a tutti i bandi possibili per portare soldi alle loro comunità. Guardano al loro piccolo, senza avere la visione dell’insieme. Non so se sia sintomo di immaturità politica ma è l’espressione di un problema contingente che non sono in grado di risolvere.

All’interno della Comunità nazionale Italiana, più che di progetti, ideali e valori, non si fa altro che parlare di soldi?

Ilaria Rocchi: Sì, purtroppo è così perché, abbiamo creato un sistema che deve essere alimentato perché altrimenti si spegne e quindi questo argomento diventa prioritario. Dobbiamo tener conto che in un decennio i mezzi che arrivavano dall’Italia sono calati.

Ci siamo resi conto di quello che stava accadendo?

Ilaria Rocchi: Penso proprio di no. Non so perché ciò sia avvenuto questo, non so se tutti continuano a pensare che i finanziamenti ci siano ci è dovuti e che quindi qualcuno provvederà a trovarli per continuare a fare quello che si faceva.

Eppure, segnali vengono da più parti che potrebbe non essere così.

Ezio Giuricin: Gli orizzonti che si stagliano di fronte a noi non sono certamente positivi. Il nuovo governo italiano va alla ricerca di nuove risorse per realizzare i propri progetti e le proprie promesse elettorali, andrà certamente a trovare risorse dove sarà più facile toglierle. Niente di più semplice che prenderli a questa minoranza sperduta al confine orientale.

Ma facciamo bene a perdere tanto tempo a parlare di soldi e non di idee, progetti e valori?

Ezio Giuricin: Il problema non è finanziario, anche se dipendiamo per la nostra sopravvivenza dai finanziamenti. Il problema è politico, perché questi anni di finanziamenti di questo tipo, da parte dell’Italia, sono frutto di una strategia, forse non studiata a tavolino, per incanalare la minoranza all’interno di un contesto molto limitato.

L’abbiamo fatta noi o l’abbiamo subita?

Ezio Giuricin: È frutto della mancanza di una visione di prospettiva delle forze politiche italiane, mentre noi in settant’anni di regime abbiamo imparato a non dar fastidio. La nostra sopravvivenza, all’epoca era frutto di un compromesso della leadership del momento per ottenere quelle poche briciole che ci avrebbero consentito di sopravvivere. Eravamo geneticamente predisposti ad accettare questo ricatto.

Dobbiamo imparare a non dar fastidio?

Ilaria Rocchi: Nei primi anni Novanta non avevamo remore a dar fastidio, non so cosa sia capitato. Non so se si tratta di calcoli, di condizionamenti derivanti dal precedente regime o anche dal fatto che una vera e propria classe politica che la comunità nazionale italiana l’ha un po’ persa.

Stefano Lusa