I paesi del G7 e l'Australia si sono uniti all'Unione Europea per l'adozione a partire da lunedì del tetto al prezzo del petrolio russo, stabilito a 60 dollari per ogni barile di Urals, modello di riferimento per il greggio venduto dalla Russia sui mercati globali. Secondo i proponenti si tratta di un passo fondamentale per prevenire l'impennata dei prezzi e privare l'inquilino del Cremlino, Vladimir Putin, dei finanziamenti per la guerra in Ucraina.
Il bando alle importazioni e le misure accessorie avranno ripercussioni difficili da valutare, se non a posteriori. Anche perché sono attese delle contromosse, forse già al prossimo vertice dell'Opec+, il formato che include la Russia nell'Organizzazione dei paesi produttori ed esportatori di petrolio, in programma a Vienna domenica 4 dicembre. Secondo alcuni analisti i paesi Opec potrebbero prendere tempo, secondo altri a partire da lunedì potrebbe abbattersi uno tsunami sui mercati petroliferi. La Russia è responsabile del 10% della produzione globale di greggio ed è quindi impossibile che l'embargo occidentale non porti con sé conseguenze, a prescindere dall'efficacia o meno del price cap.
Mosca non arretra di un millimetro. Secondo le parole dell'Alto rappresentante dell'Ue per la Politica estera, Josep Borrell, la Russia "sta cercando di rendere l'Ucraina un buco nero, senza luce, senza elettricità, senza riscaldamento". Nei giorni scorsi Putin aveva già definito "distruttiva" la linea dei Paesi occidentali, accusandoli per le armi fornite a Kiev, ma sul tema del limite al prezzo del petrolio russo al momento c'è solo da registrare una nota dell'ambasciata russa a Washington, dove si legge che "l'Occidente collettivo sta cercando di ridefinire i principi alla base del libero mercato.". La posizione del Cremlino, infatti, è che passi come questo si ripercuoteranno in una maggiore incertezza e in costi più alti per le materie prime e per i consumatori. Oltre che con la possibilità per ogni paese di introdurre un tetto a ogni tipo di esportazione.
Valerio Fabbri