Un argomento studiato in maniera approfondita, quello dell'avvento del potere popolare in Istria, che ha portato la Moscarda Oblak - ricercatrice del Centro di ricerche storiche di Rovigno - a scrivere nemerosi contributi scientifici sull'argomento pubblicati su autorevoli riviste specializzate. Il suo giudizio che ne ha ricavato è severissimo.
“Potere popolare significa governo del popolo- precisa la Moscarda Oblak- ma più che un governo del popolo si trattava di un potere concentrato nelle mani del partito comunista jugoslavo e nelle sue diramazioni locali e regionali, soprattutto nella polizia, nei servizi preposti al controllo politico e nell’esercito. Ci troviamo quindi di fronte ad un potere molto articolato, organizzato in maniera verticistica e gerarchica, inserito in un sistema che andava dalle località minori sino ai vertici della federazione”.
Quale era il ruolo degli italiani all’interno di queste strutture?
“La politica del regime era improntata sul modello sovietico e predicava l’uguaglianza tra i popoli costituenti e le altre nazionalità, tra le quali c’era anche quella italiana. Agli italiani fu riconosciuto un ruolo marginale, in quanto furono uno degli elementi che fabbricavano il socialismo ed il comunismo. La politica nei loro confronti era quella della fratellanza dei popoli, che nella variante istriana diventava veniva declinata nella fratellanza italo slava. Il progetto era quello di una integrazione subordinata ed anche selettiva soltanto di una parte della popolazione italiana. Ci si rivolgeva a quelle componenti che erano ritenute coinvolgibili nel processo di edificazione della Jugoslavia comunista. Erano questi quelli che per dirla con la terminologia dell’epoca erano gli italiani “onesti e buoni”. Per rientrare in questa categoria bisognava essere disposti ad accettare la nuova condizione minoritaria che avrebbe portato l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia e soprattutto un nuovo modo di declinare l’identità nazionale, che doveva essere subordinato alle finalità dello stato socialista. Questa politica fu indirizzata ad una piccolissima parte della popolazione e fu rivolta soprattutto al proletariato italiano di orientamento comunista, che però sicuramente dopo il 1948 non fu più disposto a far propria la causa jugoslava.
Quanto il progetto fu ideologico e quanto nazionale?
“Il progetto fu sicuramente ideologico con punte nazionali. Si trattava di attuare una politica della fratellanza con dichiarazioni teoriche di altissimo livello, che nella pratica non furono rispettate, ma anche nazionali visto che questi territori erano stati annessi. Bisognava quindi anche mettere in sicurezza i nuovi confini e di controllare questa zona, reprimendo tutto quello che non entrava nel programma del nuovo stato jugoslavo”.
Qual era lo spazio di autonomia degli italiani che collaboravano con il potere popolare?
"Lo spazio d’autonomia fu ben poco. Dovettero adattarsi a tutte le forme e contenuti ideologici del regime. Erano stati riconosciuti come uno dei tanti elementi che stavano contrendo il socialismo".
Vista in una prospettiva di lungo periodo quanto spazio di autonomia della comunità italiana e dei suoi rappresentanti?
“Fino agli anni Sessanta gli spazi di autonomia furono minimi. Il ruolo dell’Unione degli italiani dell’Istria e di Fiume era funzionale al raggiungimento di determinati fini del partito. L’organizzazione era stata creata durante la guerra per favorire l’inserimento degli italiani nella Lotta popolare e poi per favorire la linea annessionistica. Nel primo periodo ci fu un grande controllo. Negli anni Cinquanta, dopo il Cominform e le seconde opzioni, molti dirigenti furono epurati ed anche arrestati. Ci fu un periodo di ripresa ed autonomia soltanto negli anni Settanta, ma perché alle minoranze fu riconosciuto un nuovo ruolo: quello di ponte. Dagli anni Sessata in poi, quindi, anche i dirigenti italiani si trovano ad avere più spazio”.
Si tentò quindi di salvare il salvabile.
“Sì, questa è una bella definizione. Va detto, però, che anche negli anni Cinquanta i dirigenti italiani dimostrarono anche slanci di coraggio nei confronti delle autorità. Cercarono di far leva sulle garanzie e sui principi teorici declamati dal sistema. Tra i dirigenti alcuni ebbero posizioni contraddittorie, altri furono ligi al potere. Ci furono una miriade di posizioni, ma soprattutto ai livelli più bassi i dirigenti italiani furono mossi dalla volontà di difesa di quello che era rimasto: cultura, sistema di valori e di pensiero”.
Più si saliva più ci si appiattiva al regime.
“Assolutamente sì. Più si saliva e più il ruolo diventava marginale e simbolico”.
Da tempo gira la proposta di revocare l’onorificenza a Tito. Per la comunità italiana in Istria ha senso o trova il tempo che trova?
“Un giudizio storico sulla politica attuata nei confronti della nostra minoranza mi pare sia sta stato dato e discusso in molte sedi. Non c’è molto da aggiungere a quella che è, dal nostro punto di vista, una valutazione negativa. Debbo dire però che queste iniziative provengono da circuiti ben precisi e penso abbiano più a che fare con slogan politici e quindi trovano il tempo che trovano. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la storia”.
Stefano Lusa