"La prima volta che realizzai di essere libero fu a Lille. Era il primo maggio del 1945 (...) Dovevo scavare nella mia memoria per trovare un simulacro della mia vita prima del lager. Ero fuggito da Bergen-Belsen (...)". Inizia così il libro "Figlio di nessuno", "l'autobiografia senza frontiere" di Boris Pahor, lo scrittore triestino testimone degli orrori del secolo, scomparso nel maggio dello scorso anno, ad anni 108. Un'opera, scritta con Cristina Battocletti, che dopo l'edizione italiana (la prima apparsa nel 2012; la seconda, ampliata, nel 2022, per La nave di Teseo) arriva ora anche ai lettori di lingua slovena - la lingua di Pahor - in un'edizione siglata Cankarjeva založba di Lubiana e prefata dal figlio dello scrittore Adrijan. Il nipote Tadej e l'italianista Edvin Dervišević hanno curato la traduzione. In quasi 300 pagine scorrono i ricordi personali, intrecciati con la storia ("l'ho subita, ma con la schiena sempre dritta", così si esprime l'autore di "Necropoli", il memoir della prigionia nei campi di sterminio che lo ha reso famoso). E ci sono le sue speranze per l'Europa.
L'uscita del volume, dedicato alle "vittime del periodo fascista, del nazismo e della dittatura comunista", è stata festeggiata oggi al Museo regionale di Capodistria in una serata omaggio per i 110 anni dalla nascita di Pahor voluta dall'Associazione Festival estivo del Litorale presieduta da Neva Zajc, accompagnata dalla proiezione del documentario su Pahor prodotto nel 2019 dalla BBC "L'uomo che ha visto troppo".
"Si tratta di una iniziativa editoriale molto importante, perché una biografia altrettanto minuziosa e accurata in sloveno non ce l'avevamo ancora", spiega la Zajc, che è stata amica e stretta collaboratrice dello scrittore. "Quest'opera, che ci parla anche del pensiero di Pahor e del suo modo di relazionarsi con il mondo, arriva al momento giusto, perché ora che lui non c'è più dobbiamo raccogliere il testimone".
"Penso che lui sarebbe felicissimo", è il commento di Cristina Battocletti, gionalista e scrittrice originaria di Cividale del Friuli. "Pahor voleva veramente che questo libro fosse tradotto in sloveno perché era la compenetrazione di due anime, slovena e italiana, e di generazioni differenti. Io gli ho chiesto molte cose che forse per gli sloveni sono più ovvie, per spiegarle agli italiani che non le sapevano. Ma ci sono anche cose italiane che uno sloveno forse potrebbe apprezzare sulla profondità del rapporto di Pahor con l'Italia. Quanto a me, oltre che felicissima sono anche un po' commossa per questo omaggio che gli è stato dedicato alla vigilia dei suoi 110 anni. Pahor mi manca molto".