Dall'esodo, evento doloroso e drammatico le cui conseguenze ancora segnano chi le ha subite e i loro discendenti, è nata anche una notevole letteratura. Pensiamo all'opera di Fulvio Tomizza, e in particolare a due capolavori come "Materada" o "La miglior vita", pensiamo a Enzo Bettiza e a quel magnifico libro che è "Esilio", pensiamo a Marisa Madieri o ad Anna Maria Mori, tutti nomi usciti dal circuito delle comunità degli esuli per diventare patrimonio della letteratura nazionale. E al miglior canone del genere appartengono anche autori e autrici che hanno dato voce all'esperienza dei rimasti, come Nelida Milani, il cui tema costante è lo sradicamento, la lacerazione dell'identità culturale di queste terre. "Scrivere per me è stato terapeutico", ha spesso dichiarato, non a caso, la narratrice di Pola. Senza dimenticare "la dolente e mai arresa vita di resistenza nella patria istriana" raccontata da Ligio Zanini nel suo "Martin Muma" . Una narrativa della memoria che al di là del valore testimoniale è grande letteratura.
Oggi pomeriggio, alle 17, a Trieste, al Circolo della Stampa, un convegno ("La letteratura dell'esodo") organizzato - in collaborazione con il Circolo stesso - dall'Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia (Irsrec) nella ricorrenza del Giorno del ricordo, proporrà una panoramica delle opere di esuli e rimasti sul loro dramma.
Accanto alla storico Enrico Miletto e alla professoressa Cristina Benussi, già docente di Letteratura italiana contemporanea all'ateneo triestino, la manifestazione vedrà l'intervento di Diego Zandel, autore figlio di profughi fiumani o, come egli stesso si definisce, "scrittore dell'esodo di seconda generazione". Il suo ultimo romanzo è un giallo ispirato agli eccidi delle foibe, "Eredità colpevole" (Voland).
"Credo - ci spiega Diego Zandel - che tra esuli di seconda generazione cambi solo la prospettiva dell'esodo rispetto alla prima, cioè quella dei miei genitori, di Tomizza, di Marisa Madieri, di Guido Miglia, di Enrico Morovich, di Paolo Santarcangeli. Loro hanno vissuto l'esodo vero e proprio, il passaggio fisico del confine, con tutto ciò che questo ha comportato in termini di dolore, di abbandono, più in generale di disperazione. Noi, parlo di me, di Silvia Cuttin, di Maria Grazia Ciani, lo abbiamo vissuto invece come sradicati nel luogo in cui siamo nati - io sono nato in campo profughi - o in altri casi arrivati troppo piccoli per avere il ricordo della terra lasciata a seguito dei genitori.
Però la frontiera l'abbiamo attraversata tutti noi, per me era quella del campo profughi in cui sono nato e cresciuto; da questa parte c'eravamo noi che parlavamo il nostro dialetto, avevamo i nostri ricordi, oltre le mura del campo c'erano gli altri. È diventata la nostra formazione. Sono le due prospettive sull'esodo, su quello che noi abbiamo testimoniato con i nostri libri".