Patrik Zaki, 17 mesi dopo il suo arresto, si troverà di fronte i giudici istruttori egiziani, incaricati di spiegare e di dimostrare perché lo studente dell'Università di Bologna è stato arrestato, quando rientrò al Cairo nel febbraio del 2020, per una breve vacanza. Si attende quindi di capire quali siano le prove prodotte contro il giovane: fino ad ora l'avvocatessa che lo difende, Hoda Nasrallah, ha potuto fare riferimento solo ad una serie di accuse, senza alcun documento a cui potersi appigliare per preparare le linea difensiva. Non c'è stata, insomma, alcuna possibilità di contestazione ma solo ripetute proclamazioni di innocenza. Lo studente, durante le udienze per il rinnovo della detenzione, ha infatti ripetuto più volte di non essere l'autore dei post incriminati condivisi sui social, ma i giudici chiamati a decidere per l'incarcerazione preventiva non hanno mai creduto allo studente, condannandolo a rimanere in carcere in attesa del processo. Secondo la legge egiziana, una persona può essere tenuta in detenzione preventiva per un periodo massimo di due anni, ma accade spesso che quando si avvicina la scadenza, vengano modificati i capi di accusa, annullando il calcolo dei tempi e facendo ripartire il conto da zero. Meccanismo contestato dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, visto che sta permettendo da anni di tenere imprigionati molti attivisti egiziani.
La fase processuale si svolgerà a Mansura, la città di origine della famiglia Zaki, dove Patrick era stato portato immediatamente dopo l'arresto e brevemente detenuto prima dello spostamento nel famigerato penitenziario di Tora, alla periferia del Cairo, luogo nel quale sono rinchiusi i più famosi prigionieri politici egiziani.
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, ha spiegato che era in previsione che da quell'enorme castello di prove segrete mai messe a disposizione della difesa ne sarebbe stata presa una delle tante per mandarlo a processo. Ma non è ancora chiaro, al momento, quante udienze si svolgeranno. Patrick Zaki rischia una multa o una pena fino a cinque anni di carcere.
Davide Fifaco