Dopo decenni in cui si temeva il nemico esterno, in Israele ora la minaccia viene dall'interno. La riforma della giustizia lacera il Paese e rischia di polverizzare non solo l'attuale esecutivo a forte trazione conservatrice guidato da Benjamin Netanyahu, messo insieme peraltro dopo due mesi di difficili trattative, ma anche la fragile coesione sociale, con un paese spaccato fra due modelli di democrazia e due visioni del sionismo.
La riforma della giustizia, che toglie poteri di controllo alla Corte suprema per affidarli al governo, di fatto ridimensiona l'autonomia del potere giudiziario ed elimina ogni contrappeso al potere del governo in carica. Una questione di sicurezza nazionale, secondo il ministro della Difesa Gallant, uno dei più stretti alleati del premier, che si è detto disposto a pagare «un prezzo personale» per le sue idee. Gallant chiede «un dialogo di riconciliazione fra le parti», a partire dalla componente delle forze armate da cui provengono sentimenti di collera, dolore e massima delusione.
Secondo i media, Netanyahu avrebbe intenzione di licenziare Gallant, come chiesto dal ministro della Sicurezza nazionale, il nazionalista religioso Itamar Ben Gvir, rappresentante della formazione dell'ultradestra "Potenza ebraica" entrata per la prima volta in parlamento sull'onda dell'antagonismo nei confronti degli arabo-israeliani.
Ma se l'opposizione, come prevedibile, accusa Netanyahu di "danneggiare seriamente la sicurezza nazionale", le proteste nei confronti del capo dell'esecutivo sono iniziate meno di un mese dopo la nascita dell'esecutivo per la cosiddetta legge salva-premier, in base alla quale un primo ministro in carica non può essere dichiarato inadatto a svolgere le sue funzioni e quindi rimosso attraverso una decisione della Corte Suprema. Una legge che sembrava studiata per salvaguardare la posizione di Netanyahu, sotto processo per diversi capi di imputazione tra cui corruzione e abuso d'ufficio. E la riforma proposta ora sembra destinata a completare l'opera.
Valerio Fabbri