Torture, stupri e schiavitù. Sono questi i capi di accusa che pendono sull'accordo Italia-Libia che dall'anno scorso ha sì aiutato a ridurre in maniera importante i flussi di migranti che raggiungono lo Stivale, ma al prezzo di respingere i migranti, consegnarli alle autorità libiche e bloccarli nel traballante Paese nord africano, sottomessi a condizioni disumane, fatte di percosse, violenze, condizioni alimentari ed igienico sanitarie infami e lavori forzati.
Il caso alla Corte europea dei diritti umani
A valutare la base legale di quell'accordo e le sue ripercussioni sui migranti coinvolti è la CEDU, la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, chiamata ad affrontare la denuncia presentata da scorso al naufragio di una imbarcazione piena di migranti ed in cui la guardia costiera libica avrebbe interferito nei tentativi di una nave delle ONG di salvare 130 persone dal gommone. Circa 20 persone sono morte nell'incidente mentre i sopravvissuti venivano "respinti" in Libia, dove, secondo quanto raccontato, hanno subito detenzione e violenza estrema in condizioni disumane, con due migranti "venduti" come schiavi e sottoposti a scariche elettriche.
Il caso è stato portato a Strasburgo dall'associazione di beneficenza britannica Global Legal Action Network e rischia di mettere sotto scacco l'intesa voluta allora dal governo di centrosinistra ed appoggiata poi dai leader Ue. Secondo i termini dell'accordo, l'Italia ha accettato di addestrare, equipaggiare e finanziare la guardia costiera libica come parte del suo sforzo per riportare indietro le navi e rimpatriare i migranti in Libia.
"Stanno mettendo a rischio la vita dei migranti e li espongono a forme estreme di maltrattamenti riportandoli in Libia", ha affermato Itamar Mann, consulente legale della ONG britannica. "Ci auguriamo che questo nuovo caso serva a stabilire il principio chiave secondo cui i cosiddetti respingimenti sono contrari agli standard fondamentali in materia di diritti umani".
Una via legale che potrebbe annulare l'accordo Roma-Tripoli
Per i migranti e gli attivisti per i diritti umani, la sfida legale può rappresentare la più grande speranza di cambiamento anche perché già in precedenza la Corte di Strasburgo si era espressa contro intese di questo tipo. Sei anni fa la stessa CEDU aveva infatti riscontrato che un accordo simile - concordato tra Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi - violava le norme sui diritti umani, un passo giuridico che portava alla sospensione dello stesso.
In alcuni casi, come dimostra anche il recente caso dell'imbarcazione di ProActiva Open Arms, bloccata poi in Sicilia dai pm italiani, le ONG sarebbero state minacciate di violenza se non avessero consegnato i migranti, già tratti in salvo, ai libici pur intervenendo in acque internazionali.
Le testimonianza: "Meglio morire che tornare in Libia"
In un caso, riporta il Guardian, un uomo di nome Chica Kamara, 27 anni, che ha lasciato la Sierra Leone con il figlio di 10 anni, Alfonsine, all'inizio del 2017, è stato separato dal figlioletto dopo che un gommone era in trappola tra una nave mercantile e i mezzi delle autorità libiche. Kamara fu spinta in mare mentre Alfonsine rimase nel gommone e fu presa dai libici. "Ho lasciato la Sierra Leone a causa di mio figlio e ora è bloccato in Libia. So che è stato al sicuro e vivo fino a due settimane fa, ma ora non ho più sue notizie".
Dieci migranti che sono arrivati di recente in Italia attraverso la Libia hanno riferito sempre al Guardian di aver subito lavori forzati e torture, tra cui un uomo che ha dichiarato di essere stato incendiato dopo essere rimasto prigioniero per due anni. "La Libia è il peggior posto al mondo. Se sei un nero africano in Libia, ti considerano automaticamente uno schiavo ", racconta Ibrahim Diallo, 20 anni, del Gambia, che ora si trova a Catania. "Ci sono città come Sabha o Zawiyah che sono fatte per schiavi. Prigioni e campi di detenzione uno dopo l'altro. Preferirei morire piuttosto che tornare in Libia".
Amnesty International stima che circa 20.000 persone siano state intercettate dalla guardia costiera libica nel 2017 e riportate in Libia.
Il precedente Berlusconi-Gheddafi
Nella sentenza della CEDU del 2012, la corte ha dichiarato di essere a conoscenza del fatto che gli Stati, e nel caso l'Italia, erano sotto pressione per il crescente afflusso di migranti, ma che ciò non li assolveva dall'obbligo di proteggere le persone che correvano il rischio di tortura e morte in un altro paese, in concreto in Libia. La politica di "respingimento" dell'era berlusconiana invitava l'Italia a investire in Libia un totale di 5 miliardi di dollari, compresa la costruzione di una nuova autostrada, in cambio di misure di sicurezza più severe e pattuglie marittime congiunte.
Redazione Bruxelles
Articolo realizzato nell'ambito del progetto Europa.Today e con il finanziamento del Parlamento Ue